(351) — Direttamente dal CCC, il racconto di una delle più interessanti conferenze dell’edizione del 2015. Racconta l’avventura di Internet…
(351) — Direttamente dal CCC, il racconto di una delle più interessanti conferenze dell’edizione del 2015. Racconta l’avventura di Internet Archive.
28 agosto 2015 — Anche quest’anno Cassandra ha avuto la fortuna di poter essere al Chaos Communication Camp a Mildenberg, nei dintorni di Berlino. E’ stata un’esperienza utile ed interessante, senz’altro meritevole di una descrizione, delle sue luci ed ombre, in queste righe.
Ma Cassandra non vi racconterà del CCC (almeno non oggi), perché dal suo punto di vista (e di tanti altri) un singolo talk (qui il video) ha abbagliato col suo splendore l’intero evento, mettendo un po’ in ombra tutto il resto. Quindi il vostro menestrello per prima cosa vi parlerà di questo avvenimento, terminando idealmente una trilogia iniziata con “Tutta la musica del mondo” e proseguita con “Tutti i libri del mondo”.
Il titolo dell’intervento, così ambizioso da sembrare “eccessivo”, è: “Verso un accesso universale a tutta la conoscenza” (Towards Universal Access to All Knowledge: Internet Archive) tenuto dal fondatore di Internet Archive, Brewster Kahle; è stato uno di quei momenti ritempranti, indispensabili per motivare chi vuol continuare a dedicare almeno una parte del proprio tempo a cercare di fare del mondo un posto migliore.
L’intervento, organizzato in una tendone da 1.000 posti come primo della mattinata (orario molto infelice al CCC, notoriamente posto di “tiratardi”) è iniziato con pochi ascoltatori, e persino l’oratore ne sembrava contrariato: ma è terminato mezz’ora dopo, con una standing ovation di 400 persone che hanno applaudito in piedi per svariati minuti, fino a quando il moderatore non ha garbatamente dovuto interrompere per consentire l’inizio del talk successivo. Travolgente e commovente nello stesso tempo.
Ma prima di raccontare il talk è necessaria una breve introduzione. Molti dei 24 informati lettori conoscono già, e probabilmente hanno anche usato, Internet Archive, o per essere più precisi “The Wayback Machine”: si tratta di un archivio di siti web creato con la stessa tecnica dei motori di ricerca, utilizzando uno spider che dal 1996 esegue uno snapshot dei siti, ne memorizza le pagine, e tenta di trovarne altri utilizzando i link esterni.
Contrariamente a Google ed agli altri motori di ricerca, che elaborano le pagine raccolte per farci soldi, si limita ad archiviarle e le mette a disposizione nel formato originale, tramite una funzione di “timeline” che consente di recuperarne qualsiasi versione sia stata “spiderata”.
Lo spider non esegue copie ovviamente se il sito non è cambiato.Certo, le pagine sono solo “snapshot”, e gli eventuali contenuti server side o attivi esterni al sito non vengono salvati: ma la cosa importante e che se un sito possiede dei contenuti, e non fa solo “finta” di averli come gli aggregatori di notizie oppure si limita a fornire servizi, questi contenuti vengono copiati e salvati.
Cassandra ha ritrovato i suoi siti del 1996, HTML scritto a mano con il notepad, e non ha potuto trattenere una lacrimuccia.Ma chiudiamo questa piccola introduzione e torniamo a ciò che ha entusiasmato. La Wayback Machine, cosa che Cassandra non sapeva, non è che la prima creazione di Brewster Kahle e di Internet Archive, e ormai rappresenta solo una delle iniziative. Da tempo sono partite parecchie iniziative di raccolta ed archiviazione di informazioni, digitalizzazione di libri non più protetti dai cosiddetti “diritti di proprietà intellettuale”, raccolte di fotografie, di registrazioni audio, di film, di antichi software.”
Ecco — dirà qualcuno dei miei 24 impazienti lettori — la solita cassandresca smania retrò di collezionismo informatico: praticamente inutile ora che le informazioni sono tutte nel Cloud”.
Effettivamente l’affermazione suona verosimile, ma in realtà tutte le sue parti sono errate. Cassandra è lietissima di aver trovato in Brewster Kahle un esempio di quanto avanti possa essere portato il “collezionismo” di informazioni per il puro bene dell’umanità.
Per rendere affidabili e durevoli le informazioni queste devono essere copiate, non disperse in giro su altri siti, proprio come i libri devono trovarsi sugli scaffali e non altrove.
“Copiare” le informazioni vuol dire possederle, mentre linkarle ed avere solo la possibilità di “accedervi” significa dipendere da qualcun altro, che può sparire, diventare un censore od una risorsa a pagamento in ogni momento.
Conservare la cultura attraverso il tempo, libera e ed accessibile a tutti, è il necessario complemento al lavoro di chi la cultura crea e fa crescere. Le biblioteche classiche quindi devono comprare e conservare i libri, mentre quelle informatiche devono copiare ed archiviare le effimere informazioni che sono in giro per la Rete, apparentemente eterne ma in realtà labili ed effimere come una farfalla. Scienziati, filosofi e storici percorrono la loro carriera anche insieme a più umili e certo meno appariscenti bibliotecari.
Il principale motivo del successo di questa organizzazione di “volontariato informatico”, rispetto ad altre che riescono a stento a vivacchiare, è che Internet Archive non è una ONLUS, una corporation, una software house od uno degli altri classici attori della rete dell’e-commerce e delle comunità sociali. E’ invece, dal punto di vista legale, una biblioteca aperta a tutti, come lo era l’antica e ben più famosa (almeno per adesso) Biblioteca di Alessandria.
Chi conosce anche superficialmente alcune peculiarità della società e del diritto statunitensi, sa che lì le biblioteche sono considerate alla stregua di istituzioni “sacre” come la bandiera o il 4 luglio. Vengono utilizzate correntemente dai giovani e dagli studenti (in barba al cloud) e sono così popolari che il non restituire puntualmente o (orrore!) rubare un libro preso in prestito non è solo una infrazione alle buone regole di comportamento, e neppure un reato di lieve entità, ma è considerato prima di tutto immorale e riprovevole da chiunque, indipendentemente da lingua, etnia, religione o status sociale.
Queste peculiarità si è riflessa anche sullo status legale delle biblioteche statunitensi. Si tratta di entità fortemente riconosciute dal diritto statunitense e profondamente ancorate ai diritti civili sanciti dalla Costituzione Americana. Sono entità legali indipendenti, rispettatissime, considerate indispensabili e quindi nel loro ambito praticamente inattaccabili.
Un esempio? Come un altissimo numero di aziende statunitensi, Internet Archive ha ricevuto una gag-letter che richiedeva i dati dei suoi utenti con il vincolo della segretezza assoluta, sotto pena del carcere. Chissà perché? Forse perché archivia anche testi in arabo ed in farsi? O magari semplicemente per lo zelo di qualche investigatore che pesca a strascico, forte delle eresie previste nel Patriot act.
Internet Archive è stata una delle uniche tre organizzazioni che si sono opposte ad una gag-letter, ed è quella che lo ha fatto nella maniera più “dura” rifiutandosi non solo di consegnare i dati, ma rendendo pubblico il fatto, intentando una causa al governo americano per “atti incostituzionali”. Intentare una pubblica causa non concedeva però nessuna immunità: Brewster Kahle poteva essere prelevato il giorno dopo a casa e finire in galera. Ma questo non è successo, anzi non è successo niente e la causa non e stata neppure istruita. Per inciso, anche le altre due organizzazioni che sono riuscite a far questo sono biblioteche. Quod erat demonstrandum.
Neppure Google nella sua analoga ma ben più “timida” (e non pubblica) iniziativa per divulgare il numero di gag-letter ricevute, è riuscita ad avere un successo così totale. Potenza di una biblioteca, anche se povera. Il valore in Borsa dopotutto non è sempre l’unica misura del potere al mondo.
Ed anche la scottante materia, così bloccante per tutti, dei cosiddetti “diritti di proprietà intellettuale” è molto meno vincolante per una biblioteca. Innanzitutto una biblioteca può comprare un libro protetto dal diritto d’autore e darlo in prestito a chiunque senza limiti di tempo o frequenza, fintantoché non ne realizzi copie. Questo in forza della Costituzione Americana, alla faccia di qualsiasi licenza d’uso, capestro od altri barbatrucchi legali.
Poi la digitalizzazione di volumi o altro, sia ricevuti in dono che acquisiti direttamente, parte dall’assunto che si tratta di fair use nell’interesse del pubblico, non limitato nel numero di copie ed utenti. Ad una biblioteca può solo essere richiesto di cessare il prestito e/o restituire un libro di provenienza illecita. E, dato lo status semidivino delle biblioteche americane, questo accade assai di rado, ed è sempre espresso con molta, molta buona educazione.
Per cui il lavoro di digitalizzazione di libri di Internet Archive è andato avanti tranquillamente (molto più tranquillamente di quello di Google) ed ha raggiunto quasi i 10 milioni di esemplari, che sono tutti liberamente scaricabili da chiunque.
Considerando tuttavia che Google ne ha digitalizzati 10 volte tanto, l’iniziativa di Internet Archive potrebbe sembrare secondaria: ma esiste una differenza fondamentale. Se non si ha ben chiaro questo punto, è impossibile valutare correttamente il tema del libero accesso alla cultura.
I “Google Books”, apparentemente così carini e politically correct, hanno preso la cultura libera e l’hanno resa un “prodotto”, disponibile gratuitamente certo, ma comunque proprietario.
Internet Archive, all’opposto, ha acquistato o ricevuto in dono libri, e li ha “liberati”, dematerializzandoli e mettendoli in Rete tramite digitalizzazione, mettendoli a disposizione di chiunque senza nessun limite.
Di più: anche libri ancora coperti da diritto d’autore, comprati o ricevuti in dono dalla biblioteca, vengono digitalizzati, e chiunque li può scaricare in prestito gratuito, bloccando la copia per il periodo in cui lo tiene in “prestito digitale”. Questo impedisce ai detentori del cosiddetto diritto di autore di fare alcunché, perché le biblioteche possono comprare o ricevere in dono una o più copie di un libro e, proprio per la loro funzione primaria, concederle in prestito (senza duplicarle) indipendentemente da qualsiasi norma del diritto d’autore.
L’apposita sezione dedicata ai “prestiti digitali” permette a chiunque si sia registrato alla Biblioteca di farsi prestare la copia di un libro disponibile, o di mettersi in lista nel caso che il libro sia in prestito. Considerate poi che la maggior parte dei libri sono in realtà sempre disponibili perché non di interesse del grande pubblico.Sembra di sognare.
Estendete questo a due milioni di video, un milione di fotografie, centocinquantamila concerti, due milioni e mezzo di registrazioni audio, centomila programmi software.
Pensate ad un’associazione, interamente autofinanziata, che organizza il lavoro dei suoi volontari così bene fino al punto di offrire loro una casa ed un rimborso spese per nutrire al loro passione e e dedizione. Pensate a cosa vuol dire digitalizzare le donazioni che si ricevono. E’ normale che le biblioteche ricevano in lascito collezioni private: devono sfruttarle, rendendole disponibili gratuitamente al pubblico, immagazzinarle o distruggerle.
Internet Archive prende questi libri, ma anche CD, VHS, floppy, DVD, e qualsiasi supporto anche ben più atipico come i libri di cuoio di Bali, li seleziona, li digitalizza, li immagazzina e li copia in tre diversi datacenter in giro per il mondo. Datacenter magari non belli o grossi come quelli di popolarissime dotcom, ma sufficienti allo scopo. Se non ho capito male, tra informazioni uniche e copie ridondanti, Internet Archive cuba oggi 60 petabyte, ovvero 60.000.000.000.000.000 byte.
E siccome digitalizzare è caro e viene spesso fatto solo per libri occidentali, ha anche fatto partire una serie (attualmente una trentina) di centri di digitalizzazione semi-indipendenti dove persone, impegnate nell’apparentemente umile e ripetitivo lavoro di girare le pagine di un libro sotto uno scanner ottico, contribuiscono a diffondere ed a tentare di rendere immortale la cultura.
“Tutto qui? — potrebbero obbiettare alcuni — Vecchi libri che per la maggior parte nessuno leggerà mai, videocassette di vecchi film splatter che nessuno guarderà, giornali che nessuno leggerà e videogiochi 2D su floppy che nessuno lancerà mai più. Spazzatura piuttosto che cultura”.
La cultura è fatta non solo di capolavori, ma anche di una immane mole di cose poco note. I capolavori da soli rappresentano una selezione in parte arbitraria, e quindi implicitamente e magari involontariamente una censura. Internet Archive, il cui progetto (apparentemente ambizioso ed irrealizzabile) è di digitalizzare “tutta” la cultura del mondo, lo ha già fatto per una piccola cultura, quella balinese dell’isola di Bali. Ha digitalizzato tutte le opere scritte esistenti (per la maggior parte su strisce di cuoio) ed anche registrato loro performance (sono principalmente rappresentazioni tradizionali) in modo da salvare anche non solo la scrittura ma la lingua e la pronuncia fonetica.
“Mission Accomplished” quindi, missione piccola ma significativa. Salvare e rendere disponibile un’intera cultura è possibile.
Che dire? Provate a scaricare e “sfogliare” digitalmente l’intera collezione delle prima 64 annate di “Scientific American”, incluso il n.1,stampato in un unico foglio di 4 pagine come un giornale, o scaricare l’intero archivio di 35GB. Oppure date un’occhiata alla prima edizione Bemporad originale con copertina a colori del 1902 di Pinocchio, con tanto di scheda di catalogazione in fondo.
Se questi esempi non vi fanno scorrere un brivido nella schiena, e non vi chiariscono le idee, mi dispiace per voi.
Tutti gli altri potranno iniziare a sfogliare Internet Archive per loro piacere, o utilizzarlo come una importante risorsa informativa per lavoro e studio.
Possono andare a leggersi iniziative secondarie ma affascinanti e significative come quella della versione di Internet Archive della Bookmobile, un furgoncino con stampante e collegamento satellitare per produrre “on demand” i libri di Internet Archive scaricandoli al momento, anche in un villaggio africano.
E, non ultimo, possono mettersi le mani in tasca per estrarne doverosamente qualche spicciolo e sostenere devotamente questo splendore.
“Non esistono cose come i pasti gratuiti”. Quelli apparentemente li trovate su Google, ma sono fatti di voi.
Originally published at punto-informatico.it.
By Marco A. L. Calamari on September 23, 2017.
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