(339) — Tutti conserviamo in tasca uno smartphone, tutti ci affanniamo a scattare come mai prima d’ora. Le foto vengono condivise in Rete…
(339) — Tutti conserviamo in tasca uno smartphone, tutti ci affanniamo a scattare come mai prima d’ora. Le foto vengono condivise in Rete con tanto di metadati: siamo tutti ingranaggi al servizio della testimonianza. O della sorveglianza.
30 gennaio 2015 — Per descrivere cambiamenti grandi ma lenti bisogna sempre partire dagli inizi: gli instancabili 24 lettori perdoneranno quindi la lunghissima introduzione…
Iniziamo dal 24x36 appunto, che non è la domanda la cui risposta è 864 ma uno standard fotografico “rivoluzionario” dello scorso millennio. Consisteva nella brillante idea di fare le fotografie utilizzando non le apposite e grandi pellicole fotografiche, ma la normale e standardizzata pellicola cinematografica, allora larga 35 millimetri, in cui, tolto lo spazio occupato da fori per il trascinamento, dalla banda sonora e dai margini, si potevano utilizzare i 24 millimetri che rimanevano in larghezza per scattare foto in formato 2:3, appunto 24x36.
Era battezzato anche “piccolo formato” perché gli altri formati di pellicola fotografica erano molto più grandi, ingombranti e costosi, e quindi lo erano anche le macchine fotografiche e gli obbiettivi.
Questi “rimpicciolimenti” erano comuni in passato, quando la fotografia era analogica e costosa e si aguzzava l’ingegno per risparmiare. Addirittura, volendo inventare una pellicola cinematografica amatoriale, si “tagliò” per il lungo quella da 35 millimetri ottenendo il formato cinematografico semi-professionale “16 millimetri”, e da quello a sua volta il formato amatoriale “otto millimetri”…
Ma basta, non esageriamo, visto che per chi mai fosse interessato c’è Wikipedia.
L’immagine si formava grazie alla fotosensibilità di un composto chimico, l’alogenuro di argento, ma era latente ed invisibile; la si faceva apparire “sviluppando” la pellicola in una serie di bagni chimici, asciugandola ed ottenendo una immagine illeggibile perché “in negativo”. Occorreva poi proiettarla su un foglio di carta fotografica all’alogenuro di argento, che doveva essere poi trattato in maniera simile alla pellicola, per arrivare ad una semplice foto in bianco e nero.
Le foto in bianco e nero normalmente venivano fatte sviluppare e stampare da un laboratorio fotografico che faceva un lavoro solitamente mediocre: per curare contrasti, inquadrature e dettagli si doveva fare tutto in casa, comprando costose attrezzature e prodotti chimici vari. Non sto parlando di quello che faceva Daguerre nell’800, ma di quello che era lo stato dell’arte negli anni ’70, quando anche Cassandra faceva il “fotoamatore”.
Un rullino di pellicola poteva contenere 12, 24 o al massimo 36
immagini, e fare uno scatto era una cosa meditata perché relativamente
costosa.
Un normale vacanziere portava a sviluppare il rullino di tutta un’estate
in autunno, e magari non era nemmeno pieno, un turista in un lungo
viaggio scattava una mezza dozzina di “rullini”, un fotoamatore che
passava un’intera giornata a realizzare foto da concorso usava un solo
rullino, al massimo due.
Poi le foto dovevano essere organizzate, raccolte in album od
incorniciate: parliamo di qualche decina di immagini alla volta.
Lo stesso avveniva ne caso di “filmini”, come venivano chiamate quelle
bobinette da 15 metri che duravano 3 minuti, dove in spezzoni di pochi
secondi si condensava un intero mese al mare.
Immagini come perle rare, un pizzico per volta.
Salto di 40 anni…
Il vacanziere della stessa età non si porta nemmeno dietro macchina fotografica o da presa: tira fuori lo smarphone e scatta a raffica immagini che una volta si sarebbero definite di risoluzione e correzione cromatica professionale, magari in condizioni di luce allora “impossibili”. Oppure comincia a vagolare a braccia alzate, guardando per aria, e produce ore di riprese in full-HD ed audio stereo.
Centinaia di foto durante una vacanza, e magari anche una o due ore di riprese. E lo fanno tutti, non solo una piccola percentuale di foto o cineamatori.
Le foto, le riprese, sono oggi continue in tutto mondo.
Durante una passeggiata in Piazza Duomo, al mare od in un luogo
turistico, finiamo su dozzine di foto e filmati che delizieranno amici e
parenti di chissacchì, magari dalla parte opposta del globo.
E se poi c’è qualche motivo particolare per scattare?
Decine di persone contemporaneamente scattano a raffica. Ormai una parte
significativa delle riprese di avvenimenti improvvisi sono fatte da
persone qualsiasi che hanno sfilato di tasca il cellulare ed hanno fatto
quello che in passato riusciva solo ad un Robert Capa nella sua mitica
foto del miliziano
colpito.
Cogli l’attimo. Ma oggi, in ogni momento quanti attimi vengono colti?
Così tanti che persino le telecamere di sorveglianza sono
surclassate? Probabilmente sì.
Se ciascuno dei possessori di uno smartphone produce (poniamo) un
gigabyte di foto e video all’anno (Cassandra ne fa di più), il miliardo
di essere umani possessori di tali diavolerie di un exabyte di informazioni all’anno.
Aggiungiamo a questo che esse sono condite di una quantità impensabile di metadati, e che vengono spesso caricate, talvolta in pochi secondi, su comunità sociali o siti specializzati. Facciamo mente locale.
Un’ipotetica analisi delle foto che vengono uploadate su Facebook in pochi secondi, se opportunamente sfruttata con tecniche alla Datagate, può fornire un servizio di intelligence mirato, equivalente ad un onnipresente agente Smith, sempre già sul posto.
D’altra parte la cosa può avere anche effetti positivi: chi vuole fare “brutte cose” in pubblico deve fare i conti con la quasi certezza di essere ripreso, e quindi subisce un effetto di deterrenza. Una piazza Tien an Men permanente, con pubblicazione su internet in tempo reale.
Di converso, contromisure come quelle descritte nel sequel del romanzo di Cory Doctorow “Little Brother”, cioe “Homeland”, in cui prima di caricare una manifestazione, alcuni immaginari difensori dell’ordine costituito friggono tutti i cellulari con una piccola arma EMP non si trovano “Ai confini della Realta”, ma tra le cose facilmente realizzabili.
La privacy della nostra immagine è scomparsa: essere ragionevolmente certi di non essere ripresi è una condizione sempre più rara e difficile da ottenere nella nostra vita quotidiana.
Il telefonino in ogni tasca è un cambiamento epocale, non solo per la comunicazione interpersonale ma per la materializzazione di un Panopticon “distribuito”, che si affianca, ed è probabilmente più temibile, alla videosorveglianza “normale”.
Concludendo, questo Panopticon distribuito, tascabile perché quasi
tutti lo tengono in tasca, giova più ai buoni o ai cattivi, aiuta la
trasparenza od il tecnocontrollo?
Non è facile rispondere, e forse ormai nemmeno tanto importante.
È invece certo che l’antica maledizione cinese “Possa tu vivere in tempi interessanti” ci ha colpito tutti ancora una volta.
Originally published at punto-informatico.it.
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By Marco A. L. Calamari on April 10, 2023.
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