Cassandra Crossing/ Proprietà intellettuale, ologrammi e mutande

(133) — Persino un paio di boxer può rivelare il tunnel in cui siamo finiti. E non grazie a quello che c’è dentro ma per via di quanto ci…


Cassandra Crossing/ Proprietà intellettuale, ologrammi e mutande

(133) — Persino un paio di boxer può rivelare il tunnel in cui siamo finiti. E non grazie a quello che c’è dentro ma per via di quanto ci è cucito sopra.

19 settembre 2008 — Un vecchio slogan, popolare anche se controverso, che ho sentito molte volte nei miei anni giovanili, diceva tanto peggio, tanto meglio, più la gente è arrabbiata più avrà voglia di cambiare le cose.

Ho sempre pensato che fosse un approccio inefficace, come a più riprese la Storia ha dimostrato, ma proprio ierisera ne ho avuto un’ulteriore conferma.

I frequentatori di questo angolo di mondo, oltre ad essere abituati ai discorsi balzani ed ai paragoni tirati per i capelli, sono a conoscenza della negatività e della invadenza che l’attuale implementazione delle leggi sulla cosiddetta proprietà intellettuale causano alla vita di tutti giorni.

La mercificazione della conoscenza e la creazione di bisogni stanno assorbendo risorse sempre più importanti in termini sia economici che di attenzione della società, nel più totale disprezzo non solo di massimi sistemi come la cultura e il bene dell’umanità, ma anche di cose elementari come la soddisfazione dei propri clienti.

La profonda convinzione ormai “cablata” nelle aziende, quella secondo cui il marketing e la proprietà intellettuale siano i valori principali rispetto alla fornitura di prodotti sempre migliori ed innovativi, porta a delle situazioni pesantissime che impattano la sfera quotidiana di tutti.

Tanto peggio tanto meglio, quindi. Continuando così la gente si inc***** arrabbierà sempre più ed alla fine comincerà a fare qualcosa ed a reclamare una vita più “sana” dal punto di vista della produzione e del consumo, preoccupandosi prima delle cose di tutti i giorni invece che solo di foche e centrali nucleari.

Bene, non funziona così. O almeno a me, che sono parecchio inc***** disturbato da questo andazzo, ierisera non ha funzionato.

Ierisera non mi sono arrabbiato; sono andato oltre, mi è venuto da ridere. E si sa, il riso rilassa, ma non porta energie per il cambiamento.

Però in certi casi gridare il re è nudo (ed in questo caso la massima si applica particolarmente, come sarà chiaro fra poco) può servire lo stesso a favorire un cambiamento, e quindi vincendo un poco di imbarazzo vi racconto il fattaccio.

La mia signora, come spesso succede alle signore, ama frequentare liquidazioni e mercatini; quando secondo lei il risparmio è notevole accade che faccia polpette della mia diffida a comprare qualunque cosa sia firmata se deve essere indossata da me.

Ieri mattina, con licenza parlando, mi sono perciò trovato ad indossare mio malgrado un paio di mutande nuove di zecca e “firmate” da una nota casa di abbigliamento.

Durante il giorno ho cominciato ad avvertire un certo fastidio alla schiena (chiamiamola così) fatto di occasionali leggere punture. Senza neppure verificare ho pensato che si trattasse di una etichetta cucita male o di un “panino” di etichette di vario tipo ormai abbastanza comune nei capi di abbigliamento.

Infatti pare che preoccuparsi della comodità di chi indosserà un capo di biancheria (anche la camicia che ho addosso in questo preciso momento ha un problema simile) non sia nel “focus” delle aziende suddette.

Bene, avevo azzeccato la diagnosi ma solo in parte, fatto che è stato evidente quando la sera mi sono armato di forbicine apprestandomi ad una rapida e radicale rimozione del disturbo.

Si trattava in effetti proprio di un panino di etichette, però più spesso del solito.

Addirittura, emanava una strana luminescenza. Radioattivo forse? No.

Da un esame più attento ho prima constatato che le etichette non erano solo tre (marca, composizione del tessuto e taglia) ma addirittura quattro, e successivamente, udite udite, ho compreso che la quarta etichetta, quella che bucava, era un sigillo di autenticità, una protezione dalla copia, era nientepopodimeno che un ologramma.

Sono rimasto paralizzato per qualche secondo, poi sono scoppiato a ridere.

Pensate, c’è qualche potente genio in questa famosa azienda di abbigliamento che ritiene giusto, utile e produttivo cucire ologrammi nelle mie mutande per rassicurarmi sul fatto che siano autentiche. Fatte in Cina ovviamente, ma “autentiche”.

Sono sicuro che la cosa farà molto colpo su un’eventuale mia conquista occasionale che avesse modo di verificare la cosa di persona.

E sono altrettanto sicuro che il suddetto genio sia parente di quello che ha messo metà pile nella corda per saltare della mia nipotina, e che anzi guadagni anche più di quello, visto che opera non nel campo dei giocattoli ma in quello lucrosissimo dei prodotti griffati.

Spero vivamente che la mia improvvisata operazione di sartoria non abbia violato qualche accordo di licenza scritto sulla busta delle suddette mutande; magari verrà fuori che non potevo rimuovere l’ologramma ma dovevo restituirle al negozio senza install*** indossarle per avere un rimborso.

Che dire? Siamo davvero alla frutta.

Stiamo raschiando il fondo del barile. Più in basso di così (letteralmente) non si può andare.

Ma nessuno si inc**** arrabbia, dopo aver smesso di ridere?

A me è successo, e l’ho voluto raccontare anche a voi.


Originally published at punto-informatico.it.

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By Marco A. L. Calamari on December 30, 2022.

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