(0) — Il 22 settembre l’Europarlamento voterà su una direttiva sul diritto d’autore. In un documento spedito ai rappresentanti italiani dal…
(0) — Il 22 settembre l’Europarlamento voterà su una direttiva sul diritto d’autore. In un documento spedito ai rappresentanti italiani dal Progetto Winston Smith il punto su quello che c’è in gioco.
5 settembre 2003 — L’affollamento di proposte di legge sulla protezione della proprietà intellettuale e di scontri tra i proprietari di contenuti ed i paladini del peer-to-peer ha dato a tutti grandi possibilità di discussione e di schieramento.
Il cartello dei detentori di diritti di sfruttamento commerciale di opere musicali e cinematografiche, Disney e Sony in testa, e delle loro lobby, RIAA e più modestamente SIAE, ha fatto il proprio mestiere, alternando stracciamento di vesti a potenti azioni di lobby, che hanno prodotto leggi ed iniziative così potenzialmente liberticide da essere superate solo da iniziative mostruose post 11/9 quali il Patriot act o la TIA.
L’industria informatica, Microsoft e consorzio TCPA in testa, sta facendo del proprio meglio per realizzare in maniera adeguata il digitale del futuro, incorporando in profondità nei sistemi operativi e nelle applicazioni sistemi di protezione della proprietà intellettuale (DRM — Digital Rights Management) che hanno lo scopo dichiarato di proteggere i diritti degli autori contro i pirati informatici, e l’effetto certo di sottrarre il controllo del pc ai legittimi proprietari e di trasformare clienti ed utenti in nemici e prigionieri.
Le organizzazioni dei consumatori (poco) e quelle per la difesa dei diritti civili si stanno muovendo per contrastare in qualche modo le azioni di lobbying volte all’emanazione di leggi sempre più paradossali per la difesa delle varie forme di proprietà intellettuale.Il loro fine ultimo dovrebbe probabilmente essere quello di non contrastare particolari proposte di legge, ma fare lobbying per convincere i rappresentanti politici ed i legislatori che la difesa dei diritti dei loro elettori sarebbe, a lungo termine, la posizione per loro più redditizia (oltre che moralmente più difendibile).
Il dibattito si è acceso e spezzato su più piani specializzati, e spesso scarsamente comunicanti tra loro. I media si comportano nella solita maniera, alternando denunce contro hacker, pirati informatici e copiatori ad annunci di blitz e sequestri, senza nessuna intenzione di scalfire la superficie del problema. Gli informatici ed i crittografi analizzano le problematiche di funzionamento dei DRM ed i loro effetti collaterali, ed affiancano spesso i movimenti per la difesa dei diritti civili e del software libero, per lo più ignorati dagli utilizzatori e dai cittadini.
Pur vivendo normalmente in mezzo a tutte queste voci, mi sono trovato avvolto da un momento di silenzio, non so se dovuto alle ferie od al passaggio dell’occhio di un ciclone; quasi per caso ho scritto qualche considerazione che, partendo da questi temi, arriva in posti apparentemente molto distanti ma in realtà vicinissimi. Forse un wormhole non quantistico ma concettuale?
Gli economisti parlano di “economia della scarsità” e di “economia dell’abbondanza”, descrivendo i due metodi con cui chi controlla i mezzi di produzione di un certo bene in un dato mercato cerca di massimizzare i suoi legittimi profitti
- od alzando i prezzi di un bene, che porta ad un mercato di
dimensioni ristrette con alti margini di profitto
- oppure abbassando i prezzi ed ampliando al massimo le dimensioni del
mercato, con bassi margini di profitto ma grandi volumi economici.
Da un punto di vista economico le due situazioni possono portare agli stessi risultati in termini di profitto, ma cosa significa questo in un contesto più ampio, cioè che prenda in considerazione, oltre al profitto, il benessere della società e degli individui ?
Per fare un parallelo, pensiamo a quello che è successo, in termini di benessere, prima e dopo la rivoluzione industriale, che ha portato con se diminuzioni generalizzate dei costi di produzione; produrre un bene, un pezzo di pane, una casa od un libro, prima della rivoluzione industriale aveva un costo in termini di manodopera e di materie prime molto più alto di oggi.
Il caso più interessante (vedremo poi perché) è quello del libro; da bene alla portata di pochi, impiegato prevalentemente come memoria storica, è divenuto un bene di largo consumo, utilizzabile per migliorare enormemente la diffusione del sapere ed il tenore di vita intellettuale, e quindi materiale, di gran parte della popolazione.
Bene, se un semplice abbassamento dei costi di produzione dei libri (o più esattamente del costo marginale di produzione) ha potuto così tanto, cosa potrebbe provocare un suo azzeramento ?
Una breve parentesi tecnica; il costo marginale di produzione di un oggetto è il costo che si deve sostenere, dopo aver prodotto un certo numero di questi oggetti, per produrne uno in più. In situazioni classiche questo costo tende ad un limite definito e diverso da zero, dovuto ai costi delle materie prime, della manodopera, dell’energia e dei capitali; il miglioramento delle tecniche di produzione ha l’effetto di ridurre questo costo, che resta però sempre molto diverso da zero.
La rivoluzione digitale e telematica, ha messo tutti, economisti e semplici consumatori, di fronte ad una situazione in cui il costo marginale di produzione di un libro (ma potrebbe essere un film, una canzone od un software) è esattamente zero; produrre una pagnotta od un’auto in più ha un costo minimo, non ulteriormente riducibile, ma produrre un e-book, un mp3 od un avi in più costa zero.
Esattamente zero.
Zero fino all’ultima cifra decimale.
A mio parere gli economisti, e con loro i politici ed i legislatori, non hanno compreso a fondo, né tanto meno utilizzato la portata di questa rivoluzione; continuano ad impiegare modelli economici e comportamenti nati con costi marginali diversi da zero, in una situazione che è fondamentalmente diversa.
La possibilità di distribuire beni immateriali, informazioni, dati, musica, libri, film, cultura, a costi marginali zero dovrebbe portare necessariamente all’applicazione del modello economico dell’abbondanza. Non si tratta ovviamente di privare gli autori dei loro guadagni; distribuiti su numeri altissimi questi guadagni darebbero comunque luogo a costi bassissimi per l’utente.
Da un punto di vista filosofico e di benessere della società, una così semplice massimizzazione della diffusione del sapere dovrebbe rendere “politically un-correct” qualunque discorso volto ad una sua anche minima restrizione.
Da un punto di vista economico dovrebbe essere evidente (ma qui, seppur convinto, mi sento molto meno preparato) che contrastare un mutamento epocale invece di assecondarlo è un ben povero mezzo per tentare di produrre, e meno che mai di mantenere, profitti.
Ma è da un punto di vista morale, che la situazione é tanto evidente quanto poco dibattuta. Il perché rimane per me un mistero.
Proviamo a fare un parallelo, parlando di agronomia, di genetica e di sementi terminali.
In agricoltura, un modo (almeno entro certi limiti) di perseguire il benessere di tutti è quello di aumentare qualità e quantità dei raccolti. Il miglioramento delle sementi, con l’introduzione di maggiori rese per ettaro, di caratteri nutrizionali e di resistenza ai parassiti, è stato e continua ad essere uno dei modi principali per ottenere questi effetti. Poco importa qui se per ottenerli si fa ricorso alla semplice selezione mendeliana od alle tecniche di ingegneria genetica.
Negli ultimi anni è stata però l’ingegneria genetica a produrre la maggior parte delle nuove sementi, ed i loro prezzi sono stati controllati con gli stessi metodi usati per i medicinali; non cioè legati ai costi di produzione, ma regolati come per le opere dell’ingegno, che danno per definizione ai produttori un monopolio.
E’ noto che uno dei mezzi ritenuti vincenti per proteggere il diritto d’autore è quello di rendere difficile od almeno costosa la “copia”; trattandosi qui non di cd-rom ma di semi, sono state inventate le sementi terminali, o potremmo dire “copy-protected”.
Di cosa si tratta? Semplice, si tratta di sementi “migliorate” che, accanto a caratteri desiderabili, posseggono una proprietà aggiuntiva, cioè quella di generare piante sterili; i semi del raccolto non germinano più, ed il contadino, che potrebbe “piratare” l’opera dell’ingegno “copiando” i semi che ha regolarmente acquistato (come si è fatto da sempre) si troverà costretto a riacquistare, in condizioni di debolezza contrattuale, gli stessi semi dalla stessa fonte per sempre.
Chiunque venga a conoscenza per la prima volta di questi fatti si sente indignato; non è un caso perciò che l’argomento, che ogni tanto compare a margine dei dibattiti sugli OGM (questi sì sterili) ma che ha effetti economici di vasta scala, venga così poco amplificato.
Bene, se generare artificialmente dipendenza e carestia nel terzo mondo, dove la fame è il normale stato d’essere della grande maggioranza della popolazione, ci fa indignare, perché generare carestia intellettuale e fame di cultura in tutto il mondo non dovrebbe suscitare in noi la stessa reazione ?
Perché all’alba di un’era di abbondanza a costi (marginali) zero del cibo per la mente dovrebbe essere giustificabile contrastare anche solo debolmente questo progresso, invece di corrervi incontro?
Perché si dovrebbe lasciare anche solo un angolo di buio nella mente
di un bambino del terzo mondo?
E poco importa se la luce di sua scelta sarà Omero o Topolino, Heidegger
o Marilyn Manson, Omar Khayyam o Bin Laden; perché limitare od impedire
di conoscere e scegliere quando tutti possono vivere nell’abbondanza e
nella scelta?
Ma perché gli autori devono vivere !
Perché la cultura, la musica, il cinema, il software, non verrebbero
fatti se chi li realizza non avesse la certezza di poterne ricavare un
giusto profitto !!
La proprietà intellettuale e le sue varie manifestazioni ed evoluzioni (diritto d’autore, brevetti ecc.) sono una creazione recente della cultura occidentale ed industriale, le cui intenzioni erano, e rimangono lodevoli. Nel corpus legislativo degli Stati Uniti si parla, giustamente, di un bilanciamento tra le esigenze ed i diritti dell’autore e le esigenze ed i diritti della società nel suo complesso; nell’800 un diritto esclusivo e non cedibile di sfruttamento per 15 anni dalla produzione dell’opera era il punto di equilibrio che la legge aveva individuato.
Paradossalmente, l’evoluzione sempre più rapida della società, invece di abbreviare, ha mostruosamente allungato questo termine a 90 anni dalla morte dell’ultimo co-autore (mediamente 140 anni dalla produzione dell’opera), ed ha messo le opere dell’ingegno in balia dell’arbitrio assoluto di chi detiene i cosiddetti “diritti di sfruttamento commerciale” che non sono mai i meritevoli autori originali, ma multinazionali specializzate che senz’altro lavorano per il bene dei propri azionisti, ma non necessariamente per la produzione della cultura o per il bene dell’umanità in generale.
Che dire; non si tratta di manifestare simpatia per gli scambisti (nel senso del P2P, ovviamente) e disapprovazione per i colpi di coda di un dinosauro come la RIAA, che non si è ancora accorto di essere morto, od almeno un relitto del passato.
Si tratta invece di andare dal politico di turno e provare a spiegargli che le leggi sulla proprietà intellettuale, senza rigide limitazioni legislative sulla durata e sulla trasferibilità dei diritti, hanno l’effetto di distruggere la cultura dell’umanità come la conosciamo oggi.
Si tratta di porre, al politico, al conoscente, all’interlocutore, a noi stessi, una domanda semplice
Da che parte stai, da quella della fame o da quella dell’abbondanza ?
Tutto qui.
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By Marco A. L. Calamari on August 23, 2017.
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